Anzitutto si sente

Testo di Thomas Renard e Valentina Bandieramonte

Immagini lavoro

 

 Nuvole di marmo una mostra di Roberto De Pol

Un curioso marchingegno, immensa ragnatela assunta al grado di affresco, sovrasta lo spazio del piccolo Oratorio di San Ludovico. Sei stangoni di legno corrono paralleli lungo tutto il soffitto, mentre, vincolate perpendicolarmente ad essi, ventidue stecche verticali prepotentemente si staccano dal piano orizzontale, proiettandosi verso il basso e animando una griglia a tre dimensioni; una composizione semplice e regolare, rimarcata dalle ombre portate sulla superficie bianca e liscia di un anonimo soffitto piano. Scrupolosamente temperata nelle dimensioni e nelle misure, nella convenienza e nella fatica, essa però nega immediatamente la sua stessa regolarità, proponendosi, in ogni campata e ad ogni incrocio, come unica e irripetibile.

Un intrigo di legni e tubi di plastica si è avventato su questo reticolo: prodotto di un agente parassitario della cui occulta ma ancora vitale presenza è indizio un’indistinta moltitudine di suoni minuti. Posizionata a contraltare dell’originaria mensa rituale, se ne indovina la fonte: a volte e per pochi istanti, un lungo nastro inclinato dispensa piccole biglie a nutrimento dei suoi circuiti linfatici. Sono duecento le biglie; casuale il loro incedere. Lanciate lungo le corsie di legno e attraverso i tubi di plastica, le biglie scivolano, battono, cadono e si percutono tra loro, generando per ogni istante di vita di questo spazio un tempo sacro, un paesaggio acustico continuamente diverso ma sempre, e ancora una volta, imperscrutabile.

Eppure queste piccole sfere, scrivane di una vibrante geografia sonora, non si lasciano vedere. Una soltanto, superstite, si concede alla vista, ma solo tornando indietro e lasciandosi alle spalle il fascino di un’esperienza misteriosa. Nell’anticamera dell’oratorio, sul profilo di donna emergente dalla penombra di una fotografia, una biglia è mantenuta in equlibrio tra la magia della sospensione e la gravità di un’imminente caduta, sorpresa mentre si posa sull’incavo tra la fronte e il naso. Contrappunto o colore complementare, il silenzio fotografico ci fa vedere curve ed instabilità mentre la rigidità dell’installazione rimbomba dell’urto di una moltitudine.

Nuvole di marmo ci riporta alla grande tradizione dei soffitti affrescati delle chiese, all’illusoria rappresentazione di quanto lo stesso soffitto si preoccupava di nascondere. Però c’è qualcosa qui, come di una chiesa della controriforma, quasi un violento, pervicace ma sotteso richiamo al rischio e alla sovversione: la finzione delle nuvole affrescate si propone adesso, ardita e immaginifica, come fosse essa stessa la generatrice di un mistero che intimamente la riguarda.

Indoviniamo poi la delizia dell’artista che sale sull’impalcatura da cui tutto ha preso forma, protagonista di un isolamento di michelangiolesca memoria. C’è qualcosa del piacere artigianale nella nudità di questi materiali semplici, qualcosa che dovrebbe non dispiacere ad un Thomas Hirschhorn. L’arte del novecento è in fondo tutta percorsa di un certo godimento nel violento fare con la materia: dalle sculture méta-mécaniques di Jean Tinguely fino ai video che giravano Fischli & Weiss nel loro studio alle fine degli anni 80 (The way things go), si delinea un filone di artisti alchimisti e rumoristi, figli delle fucine di Efesto.

C’è, nell’immaginare i motivi di queste traiettorie, qualcosa della morbosa curiosità di chi avvicina l’orecchio ad un muro. Guidato da suoni sottratti al volto di cui sono espressione e fantasticando sui movimenti dei vicini del piano di sopra, oppure, come ci l’insegna Leonardo, cercando tra le crepe l’origine stessa della pittura, il muro sollecita lo sguardo della spia, del ricercatore comunque insoddisfatto. Seguire con gli occhi le fessure di un muro si rivela poi un piacere tutto sensibile; qui nell’oratorio, dove la curiosità e il mistero si espongono al pubblico sguardo, la dimensione assieme fisica e sonora delle forme astratte ci porta fino al pervasivo coinvolgimento empatico. Cartografia da seguire come la pittura aborigena che ci racconta il tempo mitico del dreamtime(Tjukurrpa), Nuvole di Marmo mette alla prova i nostri sensi abituati, costringendoli alla desueta meraviglia di un godimento reale.

 

Un curioso marchingegno, immensa ragnatela assunta al grado di affresco, sovrasta lo spazio del piccolo Oratorio di San Ludovico. Sei stangoni di legno corrono paralleli lungo tutto il soffitto, mentre, vincolate perpendicolarmente ad essi, ventidue stecche verticali prepotentemente si staccano dal piano orizzontale, proiettandosi verso il basso e animando una griglia a tre dimensioni; una composizione semplice e regolare, rimarcata dalle ombre portate sulla superficie bianca e liscia di un anonimo soffitto piano. Scrupolosamente temperata nelle dimensioni e nelle misure, nella convenienza e nella fatica, essa però nega immediatamente la sua stessa regolarità, proponendosi, in ogni campata e ad ogni incrocio, come unica e irripetibile.

Un intrigo di legni e tubi di plastica si è avventato su questo reticolo: prodotto di un agente parassitario della cui occulta ma ancora vitale presenza è indizio un’indistinta moltitudine di suoni minuti. Posizionata a contraltare dell’originaria mensa rituale, se ne indovina la fonte: a volte e per pochi istanti, un lungo nastro inclinato dispensa piccole biglie a nutrimento dei suoi circuiti linfatici. Sono duecento le biglie; casuale il loro incedere. Lanciate lungo le corsie di legno e attraverso i tubi di plastica, le biglie scivolano, battono, cadono e si percutono tra loro, generando per ogni istante di vita di questo spazio un tempo sacro, un paesaggio acustico continuamente diverso ma sempre, e ancora una volta, imperscrutabile.

Eppure queste piccole sfere, scrivane di una vibrante geografia sonora, non si lasciano vedere. Una soltanto, superstite, si concede alla vista, ma solo tornando indietro e lasciandosi alle spalle il fascino di un’esperienza misteriosa. Nell’anticamera dell’oratorio, sul profilo di donna emergente dalla penombra di una fotografia, una biglia è mantenuta in equlibrio tra la magia della sospensione e la gravità di un’imminente caduta, sorpresa mentre si posa sull’incavo tra la fronte e il naso. Contrappunto o colore complementare, il silenzio fotografico ci fa vedere curve ed instabilità mentre la rigidità dell’installazione rimbomba dell’urto di una moltitudine.

Nuvole di marmo ci riporta alla grande tradizione dei soffitti affrescati delle chiese, all’illusoria rappresentazione di quanto lo stesso soffitto si preoccupava di nascondere. Però c’è qualcosa qui, come di una chiesa della controriforma, quasi un violento, pervicace ma sotteso richiamo al rischio e alla sovversione: la finzione delle nuvole affrescate si propone adesso, ardita e immaginifica, come fosse essa stessa la generatrice di un mistero che intimamente la riguarda.

Indoviniamo poi la delizia dell’artista che sale sull’impalcatura da cui tutto ha preso forma, protagonista di un isolamento di michelangiolesca memoria. C’è qualcosa del piacere artigianale nella nudità di questi materiali semplici, qualcosa che dovrebbe non dispiacere ad un Thomas Hirschhorn. L’arte del novecento è in fondo tutta percorsa di un certo godimento nel violento fare con la materia: dalle sculture méta-mécaniques di Jean Tinguely fino ai video che giravano Fischli & Weiss nel loro studio alle fine degli anni 80 (The way things go), si delinea un filone di artisti alchimisti e rumoristi, figli delle fucine di Efesto.

C’è, nell’immaginare i motivi di queste traiettorie, qualcosa della morbosa curiosità di chi avvicina l’orecchio ad un muro. Guidato da suoni sottratti al volto di cui sono espressione e fantasticando sui movimenti dei vicini del piano di sopra, oppure, come ci l’insegna Leonardo, cercando tra le crepe l’origine stessa della pittura, il muro sollecita lo sguardo della spia, del ricercatore comunque insoddisfatto. Seguire con gli occhi le fessure di un muro si rivela poi un piacere tutto sensibile; qui nell’oratorio, dove la curiosità e il mistero si espongono al pubblico sguardo, la dimensione assieme fisica e sonora delle forme astratte ci porta fino al pervasivo coinvolgimento empatico. Cartografia da seguire come la pittura aborigena che ci racconta il tempo mitico del dreamtime(Tjukurrpa), Nuvole di Marmo mette alla prova i nostri sensi abituati, costringendoli alla desueta meraviglia di un godimento reale.