Bandiera bianca

Testo di Guido Bartorelli

Non v’è sentimentalismo nei lavori di Roberto De Pol. Fatto sorprendente visto che essi insistono nel rivelare quei piccoli gesti o accadimenti che in genere lasciamo scorrere via, senza che ne rimanga una traccia cosciente: il rumore di uno scroscio di pioggia su una tettoia, l’offesa insignificante di un riflesso negli occhi, una tenda mossa da una presenza nascosta. Come evitare che l’“epifania” si porti con sé un prevedibile alone sentimentale? Di qui la bontà della principale invenzione di De Pol, che consiste nel simulare tali gesti e accadimenti tramite il ricorso a congegni meccanici. Tanto elementari quanto efficaci, essi si sostituiscono a uomo e natura riproducendone l’azione in modo mirabilmente illusorio, salvo che, se ci si sofferma un po’ a lungo, per quell’iterazione impassibile che spetta appunto a una macchina. Del resto, non appena ci si sposta sul retro, la macchina si mostra nella sua qualità di scultura cinetica. Succede così che lo spostamento pettegolo della tenda, dopo averci colpito per la presunta presenza dell’“altro”, si svuoti della carica emotiva e si distenda in una pura sequenzialità ritmico-cinetica, che certo continua a rimandare a un contenuto, ma ormai distante, oggettivizzato. Suggellano l’effetto i titoli, che altro non sono che l’elenco letterale dei materiali impiegati. Nel caso ricordato: Batteria per auto, caricabatteria, cavi elettrici, legno, nastro adesivo, tergicristallo, tenda, viti.
Bisogna però riconoscere che l’oggettivizzazione dell’umano sentire nel funzionamento della macchina non dà un risultato pacifico, “tondo tondo”, ma lascia irrisolta un’incommensurabilità che si percepisce come ironia, o forse meglio come inquietudine, enigma. Ciò è drammaticamente evidente nel lavoro per la Querini Stampalia, in cui l’oscillazione del tergicristallo è utilizzata per sventolare una bandiera bianca, simbolo ambiguo di una pace che passa attraverso la violenza della disfatta. Mai come in quest’occasione la macchina di De Pol appare disumana nel simulare l’umano.
Si noti infine che essa è stata trasformata alla nuova funzione da altre persone, gli artisti Eva Barto e Iacopo Seri. Da questi ritorna al primo autore, che riconosce il contributo altrui inserendone i nomi nell’enumerazione del titolo. Con un’importante precisazione: «Il lavoro concettualmente si differenzia dalla collaborazione classica. È più vicino per assonanza alla filosofia open source e segue il procedimento che avviene per i software, dove il codice sorgente del programma è libero, modificabile e adattabile a nuovi contesti o utilizzi».